Con La Grande Bouffe, Claudio Cravero rilegge l’Ultima Cena trasformandola in una scena sospesa, dove l’assenza parla più della presenza. Non ci sono più i corpi dei commensali: restano tredici piatti, uguali eppure diversi, uno che si distingue come un “Giuda invisibile”. Ogni oggetto, muto e quotidiano, racconta il dramma del tradimento senza bisogno di figure.
Il coltello conficcato nel pane diventa epifania del gesto: simbolo della violenza, della fragilità, della tensione che vibra nell’attimo non mostrato ma solo suggerito. È un silenzio che grida, come nelle tele di Francis Bacon o nelle nature morte di Chardin reinterpretate al presente. La luce, intensa e direzionale, plasma gli oggetti con profondità caravaggesca, alternando chiaroscuri che trasformano bicchieri, posate e pane in attori di un dramma collettivo.
Accanto, il fiore isolato e il pitale inserito nel dittico segno di diversità, dubbio e rottura incrinano la perfezione della tavola, introducendo uno straniamento che costringe lo spettatore a interrogarsi. L’opera diventa così non soltanto fotografia, ma racconto di memoria: ci ricorda che l’Ultima Cena, da Leonardo in poi, è stata molto più di un’immagine religiosa, mito visivo, icona culturale, spettacolo del potere e della fede.
In La Grande Bouffe, la fotografia si fa quadro, la tavola diventa palcoscenico e lo spettatore si scopre partecipe. È un ponte tra passato e presente, tra sacro e profano, tra tradizione e sensibilità contemporanea. Un’opera che invita a meditare sul potere dell’immagine che parla senza voce, sull’eterno ritorno del dubbio e del tradimento, e sulla bellezza fragile che resiste al tempo